Como, Caivano, Colleferro.

Don Roberto Malgesini, Maria Paola Gaglione, Willy Duarte.

Tre nomi, tre città, un solo unico comune denominatore: l’odio.

È l’immagine di un paese perso, caduto nella spirale dell’odio più becero. Siamo diventati un popolo di odiatori, di irrispettosi, di avidi, di bigotti. L’odio non è un virus, che prima o poi – in qualche modo – può essere debellato: è una malattia sociale che nasce dalla diseguaglianza sociale, dall’insicurezza del futuro, che ci porta a individuare nell’altro il pericolo per la propria serenità e stabilità. E «l’altro» è chi ti viene indicato come colui che ti sta sottraendo ricchezza, come un intruso che viene a mangiare nel tuo piatto, come colui che è diverso.

Da una parte c’è Willy, morto per mano di un’Italia ancora fortemente razzista e dall’altra Maria Paola, morta per mano di un’Italia ancora fortemente omolesbobitransfobica; in mezzo Don Roberto ucciso per mano di quello che larga parte di noi considera “l’altro”, “il diverso”.

Sono tutte facce della stessa medaglia che trovano forza e respiro fomentati da un lato da una politica senza scrupoli, ipocrita, che prima dimostra cordoglio e poi propone comizi dai contenuti razzisti ed omolesbobitransfobici; dall’altro lato il giornalismo, che legittima e diffonde messaggi razzisti e transfobici utilizzando un linguaggio improprio. Invece le parole sono importanti: importantissime.

L’odio corre veloce, oggi.

È alimentato dai social che sembrano una stanza chiusa, invece che una maglia di una rete, dove alcune parole, che in pubblico sarebbero inammissibili, qui diventano impunibili.

Love not war

Esiste una speranza? E’ possibile fermare questa ondata di odio?

La speranza è Don Roberto, il sacerdote che aiutava gli ultimi, i soli, i derelitti, i diversi. Chiara Giaccardi, su Avvenire riporta le parole di un ragazzo senza fissa dimora, uno di quelli che Don Roberto aiutava.

Lui scrive: «Mi ha aiutato tante volte, per favore prega anche da parte mia che io non sono capace».

Don Roberto, il sacerdote impegnato in uno dei quartieri più difficili della città, che aiutava tanti ragazzi e che riusciva a farli sentire accolti e accompagnati. Un sacerdote senza social media, che non rilasciava dichiarazioni, che non faceva polemica, mai una parola, solo una quotidianità umile e concreta. Una vita che parla, e che può avere la forza di ispirare altri e che porta con se un potente messaggio, inequivocabile: la vita – ogni vita – comunque la si viva, dovunque si sia nati, di qualsiasi colore sia la nostra pelle, è sacra, così come il rispetto che le è dovuto.

Dovremmo tutti cercare di essere un po’ di più don Roberto, smettere di pensare alla diversità come una minaccia, spegnere il pulsante dell’odio ed accendere quelli dell’accoglienza e del rispetto.